giovedì 20 agosto 2015

Il mio ricordo di Céncio Lazzari



Memorie dal  «Quaderno» (5)
di Giovanni Pulini, presentazione di Agide Vandini

Sono trascorsi appena quattro mesi dalla scomparsa di ‘Tavio Lazzari o, meglio, di Céncio come tutto il paese lo ha sempre chiamato, soprannome che ne ricorda il nonno, Vincenzo Antonellini, martire antifascista filese. La memoria di ‘Tavio è ancora ben presente nel cuore di chi, come noi, ne ha sempre apprezzato l’umiltà e la semplicità, la disponibilità e la bontà di carattere, soprattutto è, e sarà sempre, nel cuore di tutta la sua famiglia: moglie, figlie e nipoti da cui era fortemente amato e benvoluto.
Non ha mai ostentato nulla, Céncio, non ha mai preteso riconoscimenti particolari, lui, ex partigiano in momenti difficili ed in un ambiente particolarmente ostico; anzi, era restio alle testimonianze ed alle esibizioni in pubblico. Forse per timidezza innata, o forse non voleva che lo si credesse un «eroe», lui che «eroe» non si era mai sentito, o forse infine per quell’intimo rispetto verso i tanti, umili compagni rimasti sconosciuti come lui. Gente che quella Resistenza l’ha combattuta e sostenuta in silenzio, donne e uomini che ci hanno dato il mondo libero in cui viviamo. Uomini e Donne che, poi, dopo il 25 aprile del 1945 non hanno chiesto onori o ricompense, perché l’Onore Grande, quello Vero, stava e doveva rimanere dentro al loro cuore: quella Democrazia e quella Libertà per la quale si sono sacrificati e che, ai loro figli e nipoti, agli italiani a venire, hanno lasciato in dono.
Avrebbe accettato sì quella semplice pergamena col suo nome, data a lui, in fondo, come a uno dei tanti, un riconoscimento che avrebbe voluto ricevere per conto dei tanti compagni già andati e partiti uno per volta, piano piano, quasi scivolando nell’acqua come la sua vecchia barchetta, quella che teneva nascosta alla Böca di’ Pastùr, nelle valli allagate. Aveva già prenotato il tavolo in cui avrebbe pranzato con noi, e con l’amico Giovanni che sarebbe venuto apposta da Bologna a ritirare una pergamena come la sua.
Il destino ha voluto che ‘Tavio ci lasciasse pochissimi giorni prima del 14 aprile e che quella pergamena venisse ritirata da una fiera quanto commossa, emozionatissima, nipote.
Ora Giovanni, Giovanni Pulini, il partigiano Condor, ci ha mandato un suo breve ricordo di ‘Tavio, di vera vita vissuta, scritto per il suo Quaderno. Un ricordo ed una dedica a cui tiene molto, anzi moltissimo.
Sono particolarmente felice di poterlo pubblicare nell’«Irôla» nell’affettuoso ricordo di un amico, di un uomo semplice e Vero, di una figura verso cui sento e sentiamo profonda gratitudine, tanto più in un’epoca come questa, fatta sempre più spesso di Lustrini, Apparenze e Grida Sguaiate: di quel genere di Orpelli Inutili che, a un uomo come ‘Tavio, non avrebbero mai mai fatto né caldo, né freddo (a.v.).


Ottavio Lazzari detto Céncio e la consegna della pergamena alla memoria nell’aprile 2015

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Il mio è un ricordo che va dal 1930 al 1996: il ricordo di un’amicizia lunga un’intera vita.
 Filo, mio paese natale, festeggia il giorno della Liberazione e la fine del nazifascismo il 14 aprile. Quest’anno l’ANPI locale ha organizzato, per il settantesimo Anniversario, un pranzo ed una festa alla quale hanno partecipato numerosissime persone e agli organizzatori va un mio personale plauso per la riuscita dell’evento e per l’eccellenza del pranzo.
In quella occasione mi è stata consegnata una pergamena per il mio contributo dato alla Resistenza, mentre altra analoga pergamena è stata consegnata, alla memoria, alla nipote di Ottavio Lazzari che purtroppo ci aveva lasciati a tre giorni dai festeggiamenti. Al momento dell’invito, Ottavio, sia pure in precaria salute, aveva dato la sua calorosa adesione e ciò mi aveva reso felice.
D’altronde, in analoga occasione, nel 1996, allorché venne organizzato un pranzo fra tutti i filesi nati nel 1926,  avevo incontrato tante persone che non rivedevo da quaranta anni e al mio fianco sedeva proprio lui, Lazzari Ottavio, conosciuto da tutti in paese col nomignolo di Céncio.
 Fu quello un incontro bellissimo e tante furono le cose che ci raccontammo.
 Ottavio ed io abbiamo avuto infatti un percorso di vita molto simile e quando gli dissi che avevo scritto un libro autobiografico si mostrò alquanto interessato affermando che gli sarebbe piaciuto scrivere la nostra antologia a quattro mani, lui ed io. Quando ci lasciammo, ci promettemmo di rivederci quanto prima in altro contesto per mettere a punto il progetto: purtroppo un incontro rimasto sempre e soltanto nelle buone intenzioni.
 Se mi permetto ora di dare voce a qualche ricordo comune di stenti e di vita grama è perché anche Céncio non fece mai mistero della sua umile provenienza.
 Eravamo tanto amici perché avevamo la stessa età, e anche perché i nostri rispettivi padri erano amici a loro volta: il suo  era conosciuto in paese come Pinàz de’ Canzularòñ. Entrambi abitavamo nella borgata di Case Selvatiche, insieme avevamo fatto il breve percorso scolastico, infine la sua famiglia era numerosa quanto la mia sicché ci accumunava la miseria, quella che si accaniva verso le famiglie con tante bocche da sfamare.
 Racconterò un episodio che oggi sembra avere il sapore di una favola, eppure ai tempi della nostra fanciullezza non destava certo meraviglia o stupore. 
Qualunque lavoro nei campi a quel tempo veniva svolto dalla mano dell’uomo, e uno di questi era la semina delle barbabietole, opera in cui l’apporto dei bambini era ritenuto indispensabile. Noi piccoli con una mano portavamo il secchiello coi semi, e con l’altra, a schiena curva,  lasciavamo cadere il seme all’interno di piccole buche scavate nel terreno dalla zappa dell’adulto che ci precedeva. 
Penso che avessimo poco meno di dieci anni quando, un giorno, Céncio mi propose di andare con lui, alla semina delle barbabietole presso gli Stufadĕñ, ovvero nella vicina campagna della famiglia Savioli. Lì egli era già stato l’anno precedente e mi assicurò che, non solo si mangiava bene, ma a fine lavoro essi erano soliti ricompensare con qualche soldo anche i più piccoli aiutanti.
Così andammo entrambi e il lavoro durò quasi una settimana. L’ultimo giorno si festeggiò con una tradizionale bandĕga (banchetto); a tavola, oltre all’abbondanza di tutto, ricordo che, cosa rara a quei tempi, ci fu data persino la ciambella… Alla fine del pranzo a noi furono allungati un po’ di soldi, non ricordo quanti.
Durante il cammino verso casa Céncio, a pancia finalmente piena, mi confessò d’essersi abbuffato a sazietà poiché non sapeva quando ci sarebbe stata una seconda volta.
Se avessimo scritto un libro insieme sono certo che avrebbe voluto raccontare la gioia e la soddisfazione di quel giorno, un episodio che, in ogni nostro incontro, solitamente narrava con dovizia di particolari, quasi si fosse trattato di un fatto epico ed eroico.
 Quando fu più grandicello, Céncio si trasferì con la famiglia alla borgata del Molino di Filo e i nostri incontri divennero meno frequenti. Spesso ci vedevamo nelle valli dove entrambi pescavamo le anguille di frodo. Facevamo lo stesso lavoro in squadre diverse e quasi sicuramente eravamo i bracconieri più giovani della valle. Quell’attività ci fece diventare uomini molto presto soprattutto perché, sia pure ancora ragazzi, eravamo costretti a prendere spesso decisioni forti, come quella vita necessariamente richiedeva.
Abbiamo poi avuto la fortuna, entrambi, di superare, in quell’ambiente, ogni insidia e pericolo nella comune guerra di Resistenza particolarmente combattuta ed attiva nel nostro territorio. Nonostante i rischi e le tante traversie, ne siamo rimasti vivi.
Nell’immediato dopoguerra continuammo ancora per un po’ nel bracconaggio poi, per motivi di lavoro, io, a fine anni Cinquanta, lasciai il mio paese.
 Non abbiamo potuto scrivere insieme la nostra storia e di ciò mi dispiaccio molto. Nei nostri rari incontri a Filo, si finiva sempre nel reciproco  «Ti ricordi…», ed era ogni volta un infinito piacere riabbracciarci e  rivederci.
Di recente ho avuto modo di consultare un Archivio storico contenente importanti documenti della lotta partigiana, epoca che ci ha visto protagonisti nelle nostre valli. Sfogliando con grande curiosità ed emozione una carpetta appartenuta al Comandante Meluschi (Il Dottore)[1] ho potuto leggervi, con mio grande piacere, il nome di Lazzari Ottavio, il nostro amato Céncio, a quell’epoca, come me, poco più di un ragazzo, ed era menzionato in prima fila, fra coloro che diedero il loro vitale e prezioso contributo alla Resistenza, alla lotta per la libertà di tutti.
                                                                                                   Giovanni Pulini, Luglio  2015


[1] Antonio Meluschi, detto Il Dottore, comandante della Brigata Garibaldi «Mario Babini» operante nell’argentano e nel comacchiese.

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